Claudio Parmiggiani (Luzzara, 1943) frequenta l’Istituto d’arte Venturi a Modena e negli stessi anni inizia a frequentare lo studio di Giorgio Morandi a Bologna. La sua prima mostra si tiene nel 1965 alla libreria Feltrinelli di Bologna, dove espone calchi in gesso dipinti che l’artista definisce ‘pitture scolpite’ e che segnano quella che viene considerata la prima apparizione di un calco in gesso nella vicenda artistica delle neoavanguardie. È il tempo del Gruppo ’63 e dei poeti riuniti attorno a “il verri” di Luciano Anceschi ai quali Parmiggiani sarà molto vicino, contribuendo a dar vita a quel clima, proprio del periodo, di intensa collaborazione tra arti visive e poesia. Ma il rapporto fondamentale è con Emilio Villa, con il quale stabilirà un profondo e lunghissimo sodalizio. È del 1970 Atlante, con testi di Balestrini e Villa, opera che si inserisce tra i lavori di misurazione eseguiti tra il 1967 e il 1970: carte geografiche e mappamondi accartocciati, vere antitesi delle certezze del mondo fisico. Del 1970 sono le prime Delocazioni, opere e ambienti di ombre e impronte realizzate attraverso l’uso della polvere, del fuoco e del fumo, opere che riflettono sul tema dell’assenza e del passare del tempo nelle sue tracce visibili. Nel 2000 realizza Il faro d’Islanda, opera permanente, solitaria e luminosa, posta alla periferia di Reykjavik, altre sue sculture sono collocate in Francia, Egitto, Repubblica Ceca. Oltre alle innumerevoli esposizioni, nazionali e internazionali, realizza diversi libri arte e, tra gli altri, pubblica “Sangue Stella Spirito” (Actes Sud, 2000). Della sua opera si sono occupati i maggiori critici e pensatori contemporanei. Dirige per la casa editrice Diabasis la collana Lo Spazio e il Tempo. Le sue opere sono esposte in diverse collezioni permanenti, in Italia e all’estero. Il suo volontario “esilio” dalla scena artistica italiana, il suo ostinato silenzio da oltre quaranta anni, valgono, nel mondo artistico di oggi, come una presa di posizione di una radicalità pressoché unica. In un contesto in cui la confusione dei valori è la regola, la sua “assenza” è divenuta una presenza morale e il suo silenzio un’autorità critica. Volutamente lontano dall’“attualità” dell’arte contemporanea, lontano da gruppi o movimenti.